Der Tag, an dem B. in die Hölle kam

Posted on agosto 19, 2011

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Ovvero: la divinizzazione di un banana.

Se vi capita di avere tra le mani lo schema dell’inferno dantesco, vi sarà facile constatare come Silvio B. potrebbe finire in uno qualunque dei gironi. Ebbene, vi sembrerà puritanesimo, cattiveria, gioco, io stesso non so dire bene come accadde: ma arrivò il giorno che Silvio nella selva selvaggia ci finì per davvero.

Davanti al giudice Minosse, le paure dell’ex cantante da crociera, ex palazzinaro, ex imprenditore televisivo, ex massone, ex miliardario, ex presidente del consiglio, erano le stesse ch’egli provò in attesa del giudizio del tribunale milanese. Ricordo che, sotto inchiesta per concussione e prostituzione minorile e sotto torchio dalla stampa, un giorno il Cavaliere confidò al suo vecchio maestro massone, Licio della Gellia: “Maestro, esti tormenti cresceran’ei dopo la gran sentenza, o fier minori, o saran sì cocenti?”.

Ora, l’inferno, come il sistema giudiziario italiano, assegna di norma la competenza territoriale in base al peccato più grave. Gli avvocati di B., che Dio li abbia in gloria, le provarono tutte, appellandosi contro la nota e pure dichiarata parzialità dei demoni chiamati a giudicare, e portando testimoni dai vari gironi, che dietro compenso paragonarono l’inferno ai gulag e i diavoli ai comunisti.

Fu tutto inutile. Grande era, infatti, l’impressione che le intercettazioni sui wild parties avevano suscitato nell’aldilà, tanto che Lucifero aveva inviato ad Arcore uno dei suoi demoni. Il resoconto fece ammutolire persino le anime perdute:

“Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle, / per ch’io al cominciar ne lagrimai. / Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche, e suon di man con elle / facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta, / come la rena quando turbo spira.”

Insomma, successe che Minosse rifiutò l’ipotesi del sorteggio tra i gironi, s’incazzò davvero e stabilì che, bolgia dei falsatori di metalli a parte (lì valse la presunzione d’innocenza), B. i gironi infernali doveva farseli tutti.

Ah, se io avessi le rime aspre e chiocce, potrei dirvi della pena di chi ha fatto di ogni codice, morale, civile e penale, un uso così spregiudicato! A voi tedeschi io mi rivolgo, voi che guardate gli italiani come “le genti dolorosa c’hanno perduto il ben dell’intelletto”: abbiate pietà ora di quest’uomo triste e solo, e della pena che gli toccò in sorte.

Lussuriosi. Tra “i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento”, a dir la verità, Silvio non se la passò poi troppo male. Più che la “bufera infernal”, che l’aveva accompagnato con ugual furia in vita, soffrì egli l’esser accoppiato a Cleopatra, che “a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fe’ licito in sua legge per torre il biasmo in che era condotta”. Galeotta fu la legge ad personam!

Avari e prodighi. I guai veri iniziarono quando fu spedito tra i dannati puniti per la loro brama di ricchezze. Era costretto a trascinare senza posa, scontrandosi e insultandosi con le altre “anime prave”, sacchi di soldi, euro e lire, monete e banconote: tutti quelli che aveva accumulato grazie alla politica. E con Virgilio che lo rampognava:“Or puoi, figliuol, veder la corta buffa / d’i ben che son connessi a la fortuna, / per che l’umana gente si rabbuffa; / ché tutto l’oro ch’è sotto la luna / e che già fu, di quest’ anime stanche / non poterebbe farne posare una”.

Iracondi. Il trasferimento di B. tra gli iracondi, poi, fu un pessimo affare. “L’anime di color cui vinse l’ira”, genti fangose e ignude, “si percotean non pur con mano”, ma con torri, duomi e colossei. Le sfuriate contro i giudici di B. gli valsero il pieno di souvenir, con tanti saluti dal bel paese.

Fu ridotto così male, che Minosse gli concesse una serata di permesso tra vecchi amici nella bolgia dei simoniaci: un lauto banchetto in compagnia delle gerarchie vaticane al gran completo.

Ipocriti. Tra gli ipocriti, Silvio se ne andava, almeno all’apparenza, vestito di tutto punto, solito doppiopetto, vero uomo di governo: lo si sentiva pure, di tanto in tanto, tenere discorsi ai dannati sull’importanza della famiglia: ne ebbe infatti due (per tacer delle puttane). E tuttavia “giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanco e vinto”. Vestiva, come d’inverno amburghese, a strati: difficile dire quanti ne avesse, una versione per ogni occasione.

Ladri. Fu quindi scaraventato tra i ladri. Nudo come bunga bunga lo ha fatto, B. si ritrovò con le mani legate da un biscione. Non avrebbe potuto, così, non solo palpare le dannate, ma neanche mostrare il gioco di prestigio con cui nascose al fisco 280 miliardi di lire nell’affare dei diritti televisivi di Setamedia, 10 miliardi per un calciatore del Mediolanum, oltre ai bilanci truccati della Investifini anni ’80. “Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!”.

Fraudolenti. E potevano essere risparmiate a Silvio le proverbiali fiamme dell’inferno? Dante vi fece bruciare Ulisse che non aveva voluto piegare il suo ingegno ai voleri del cielo. E non si può certo negare neanche al presidente del consiglio italico “l’ardore ch’i ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore” (soprattutto dei vizi). Paragonare Silvio a Ulisse ci pare invero ingeneroso per l’eroe greco. Quanto ci piacerebbe avere in Italia un governante che ci sproni con queste parole: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”! La sua fiamma somigliava certo più a quella di Guido da Montefeltro, uomo famoso al suo tempo per i suoi inganni e sotterfugi: “l’opere mie non furon leonine, ma di volpe. Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fin de la terra il suono uscìe”. Riguardo a una “lunga promessa con l’attender corto” (grande promessa disattesa, ndr), poi, per il Cavaliere non c’è rivale, moderno o medievale, che tenga.

Seminatori di discordia. Vogliamo essere chiari: noi non abbiamo mai augurato nessun male a Silvio B.. Altrimenti, ci saremmo sentiti terribilmente in colpa davanti allo spettacolo da film horror del canto ventottesimo: a vederlo tra i seminatori di discordia e di odio, con il corpo dilaniato e mutilato, che nessun chirurgo estetico avrebbe potuto rimettere in sesto. Un vero spaccato d’Italia. Chissà se andando incontro a Maometto, gli disse che era bello e abbronzato o se gli baciò la mano, scambiandolo per Gheddafi…

Pensiamo che a questo punto persino lui, che in questo girone più che in ogni altro patì la terribile legge del contrappasso, si sarebbe pentito. Lo immaginiamo fare ammenda, scusarsi e cominciare a costruire ospedali in giro per il mondo. Scrivere pure un’autobiografia, che inizi con queste parole:“Quando mi vidi giunto in quella parte / di mia etade ove ciascun dovrebbe / calar le vele e raccoglier le sarte, / ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, / e pentuto e confesso mi rendei”.

Traditori della patria. Ma B. non fece ammenda ed ecco la sua fine: il lago ghiacciato di Cocito. Silvio è finalmente giunto nel cuore dell’inferno. Dallo specchio del lago spuntano delle teste: i traditori della patria sono più pietre che uomini. Per Dante è questo il peccato più condannabile: tradire. A Virgilio fa dire: “Qualunque trade, in etterno è consunto”. I traditori non vogliono che Dante riferisca di loro nel mondo dei vivi, il loro nome non deve essere ricordato.

Silvio, consunto in eterno nel corpo e nell’anima, è impietrato nel ghiaccio. Non è solo. Un’altra testa spunta sotto la sua testa, cinta dai suoi denti. Irriconoscibile, eppure così familiare, dallo sguardo insieme perso e indifferente. La bellezza straordinaria di un tempo che vi si intuisce, schiaffeggiata da un vento gelido e straziata dal suo grande offensore.

Il “bel paese” levò il mento un’ultima volta. In quello stesso istante, lassù nell’Italia nuova, una giovane donna volgeva il suo pensiero alle due anime gemelle perdute. Tutt’intorno era guerra. Scosse la testa, che sembrava volesse scacciare la lunghezza insolita di una terzina:

“Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave senza nocchiere in gran tempesta,

non donna di province, ma bordello!”.

 

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